Quando i clienti entrano nel mio negozio rimangono disorientati di fronte alle avveniristiche soluzioni architettoniche che stridono profondamente con la pregiata mobilia d’antiquariato. Cosa c’entra una poltrona di fine ottocento in noce massello, rivestita di morbido velluto rosso con le maglie romboidali del soffitto metallico? È l’interior design che si sposa con la tradizione della nobile provincia italiana. La mia boutique, nel cuore pulsante della città, è da anni il punto di riferimento del lusso. Io lo sono per amici e colleghi alla ricerca di uno sguardo originale sul mondo. Non faccio mistero di voler essere posseduto da un uomo ricco. Dei soldi mi piace tutto: l’odore acre di quelli consumati, la brillantezza dei riflessi se nuovi di zecca e, soprattutto, il suono lieve dello sfregarsi tra loro. Ho il coraggio delle mie idee stravaganti che spesso risultano disdicevoli e sconvenienti. Non mi vergogno di bramare l’obesità, la mia fantasia per nulla nascosta è riuscire a non dimagrire mai. Anelo d’essere rimpinzato di banconote verdi, gialle e viola. Sono un portafoglio in pelle di coccodrillo e me ne vanto! Elegante, autentico e costoso rappresento l’attrazione della vetrina principale. Dolcemente illuminato da un plafone a specchio che evidenzia le finiture dei dettagli made in Italy, desto l’attenzione di uomini facoltosi e ragazzi di tendenza. Come resistere al fascino delle otto fessure per le carte di credito o alla federa in viscosa che impreziosisce l’interno? Impossibile non rimanere affascinati dalle squame verdastre dall’irregolarità selvaggia. Desto invidia tra i miei simili, vengo tacciato di spocchia, talora addirittura di razzismo. Ma non ho colpa se la pelle che mi fodera è superiore per natura.
«Ehi, Cocco, chi ti credi di essere?» mi ha detto stamattina Vit, il portafoglio di vitello.
«Il desiderio impossibile di molti» e l’ho subito azzittito. Meglio avere la puzza sotto il naso che il perenne fetore di stalla intriso nei tessuti. Eccolo, ricomincia, vuole la rivalsa.
«Fai tanto il prezioso ma sei qui da un mese e nessuno ti ha comprato!»
«Sai, valgo dieci volte te… può avermi solo un uomo benestante, dal gusto fine ma deciso…»
«Li conosco gli uomini… ci sono stato a contatto per anni. Non sono mica selvatico io. La mia specie vive con loro dalla notte dei tempi» mi interrompe orgoglioso il bovino convinto di ferirmi.
«Senti Vit, i miei avi sono sopravvissuti ai dinosauri. Oggi, invece, quelli come te ce li mangiamo a colazione nelle terre selvagge!» e gli chiudo la bocca lasciandogli solo il tempo di deglutire.
Di lì a poco, entra nella boutique un uomo distinto, sulla cinquantina. Il suo fiero portamento trasuda agiatezza a ogni movenza, saluta compito e senza indugiare osserva la merce dietro occhiali neri dalla spessa montatura. Spero di riuscirgli a piacere come lui piace a me. Sono qui, guardami, voglio essere tuo. Mi ha visto, viene nella mia direzione. Non si cura del prezzo, mi scruta curioso e allunga la mano sinistra per prendermi. I polpastrelli mi sfiorano leggeri, profumano ancora di fresco e pungente dopobarba. Mi apre, infila le dita tra le fenditure, poi mi avvicina al suo viso. Per un attimo spero voglia sfregare la pelle rasata contro le lucide squame, ma non intende bearsi del tatto, è un altro il senso che vuole soddisfare. Accostato il naso aquilino, respira la mia essenza animale. L’odore gli piace, soddisfa l’olfatto. Senza aspettare l’intervento della commessa mi porta deciso alla cassa, paga con carta e ringrazia cortese.
«Addio Vit, la vita premia i migliori. Buona permanenza…» Il ruminante rosica in silenzio, tace accrescendo la fierezza che mi pervade. Intanto il mio proprietario discute amichevole col principale, dev’essere un habitué della boutique. Rifiuta l’imballaggio, vuole mettermi subito all’opera e ripone al mio interno carte di credito e banconote. Cestina risoluto il vecchio collega e m’infila in tasca convinto dell’ottimo acquisto. Il professor Astolfi è un primario d’ospedale, un colpo di fortuna per me che sogno di riempirmi come un otre. Già mi vedo tronfio e rigonfio a godere dei privilegi di una comoda esistenza. Arrivati nel suo centralissimo attico, il dottore mi presenta compiaciuto alle donne di casa. «Un acquisto formidabile, sognavo da tempo un oggetto di queste fattezze.» La moglie è entusiasta: «Davvero bello, Alfredo, chissà quanto l’avrai pagato! Ma che fa, il bello non ha prezzo». Sono in estasi, avere una forte autostima è un conto, ma gli elogi degli altri sono lievi carezze che inteneriscono anche la pelle più dura. Sua figlia Alessandra, invece, mi concede un fugace apprezzamento dal divano formando un ok con le dita, poi torna a smanettare sul tablet. Quando il dottore mi poggia sul mobile d’ingresso faccio la conoscenza del portafoglio della sua signora. Ha la cerniera dorata che le gira tutt’intorno, le iniziali della firma ben visibili sul fondo rosa pitonato. Proprio un bel bocconcino. «Je suis Eva, enchanté» mi fa con la “s” sibilante. Conosce di sicuro l’italiano ma si dà un tono con la lingua transalpina. Capisco che è opportuno stabilire immediatamente le gerarchie.
«Piacere mio, Cocco. Senza l’accento sulla “o”. Complimenti per la pelle, peccato che quel rosa… mi sa tanto di suino.»
«È davvero un villano! Cosa vuol capire lei delle nuances cipria dell’aute couture di quest’anno?»
«In effetti, queste cose non le comprenderò mai. Sto solo rimarcando l’incongruenza tra le bellissime striature e il colore di fondo. È un serpente, si chiama Eva, dovrebbe conoscere il suo peccato originale.»
La battuta sembra piacerle, il sorriso che segue la rende ancora più desiderabile. Infatti: «Davvero un pensiero arguto, ha una mente raffinata, la utilizzi per impressionare in modo positivo e godrà di effetti sconosciuti». La pitonessa ammicca, devo aver fatto colpo. Lo scoprirò presto, staremo uno accanto all’altra per l’intera serata. E tutta la notte.
Di notti insieme ne abbiamo passate tante, i nostri sentimenti sono ormai una dolce certezza, ma qualcosa m’intristisce, mi rende insofferente. Sembra non mancarmi nulla: un proprietario ricco, un partner all’altezza, una casa curata nei minimi dettagli dove anche gli intarsi del posacenere fanno pendant con quelli del vicino vaso di cristallo, sempre ricolmo di fiori freschi. Invece l’inquietudine mi dilania, la malinconia mi avviluppa. È il mio ruolo di portafoglio che viene messo in discussione, pochi soldi e tanta infelicità: ecco la diagnosi. Il professor Astolfi mi tiene a stecchetto, le banconote sono un antico miraggio, paga tutto con carta di credito. Ne ha quattro e le usa anche per piccole somme. Ieri ha comprato un pacchetto di sigarette e anziché prendere il biglietto da dieci, di cui ormai conosco la serie a memoria, ha adoperato la carta. È un’abitudine consolidata, l’utilizzo del contante non viene preso in considerazione quasi mai. Ciò che mi turba è la consapevolezza di dover convivere con questa pratica nefasta, sono condannato a non colmare il mio vuoto interiore. Smunto, quasi anoressico ho un aspetto deprimente, Eva non ci bada e tenta in ogni modo di sollevarmi il morale. Io resto muto, non un fiato esce dalla mia bocca impastata di tristezza e delusione.
Fortuna che stasera usciamo assieme. Andiamo al cinema e colgo l’occasione per distrarmi in compagnia della mia amata. Io nella tasca posteriore destra, lei nella borsa che scende dalla spalla sinistra camminiamo vicini per il lungo tragitto che ci porta fino all’Odeon. La sera è fresca, da poco ha smesso di piovere e le strade pullulano di gente, nei bar si bevono coloratissimi aperitivi, ma quest’atmosfera non lenisce la mia pena. Al botteghino è il mio padrone a pagare: mi prende tra le mani, inserisce due dita nella fessura laterale e, come da troppo tempo accade, tira fuori una delle sue carte. Non c’è speranza, il mio destino è segnato. Morirò di stenti. Sulla strada del ritorno mentre chiacchiero con Eva che si prodiga a dimostrarmi empatia, noto che ci segue un giovane dall’aria sospetta. Noi ci fermiamo, lui si stoppa; andiamo a destra, lui svolta con noi. Il dubbio che alle nostre spalle ci talloni un malintenzionato diventa certezza quando, tra la folla del centro, il dottore viene spinto in avanti con una spallata. Il colpo lo sbilancia, quasi cade a terra. «Mi scusi» fa il furfante che senza voltarsi sparisce repentino. Io sono nelle sue mani, il furto è riuscito. Nessuno se n’è accorto, solo Eva grida disperata: «Al ladro, al ladro! Hanno rubato il mio adorato Cocco».
«Addio amata serpe, la vita castiga chi non sa essere il migliore.» Ma lei non può sentirmi, ora sono già in un’altra tasca.
Il cucciolo d’uomo, perché a guardarlo in volto di certo è un minorenne, si rifugia in un vicolo e mi apre lentamente per scorgere eccitato il mistero che racchiudo. «Solo sessanta euro, porca troia!» e prelevati i soldi, sbatte forte le mie facce. Il bottino è troppo magro, proprio come me. Un attimo di titubanza, poi decide di scaraventarmi via lontano. Completamente svuotato, volo leggero nell’aria fetida della stradina senza uscita. Ad accogliermi al suolo una pozzanghera fangosa, che attutisce l’atterraggio e schianta la mia anima. Sono circondato da escrementi di cane e spazzatura riversata per terra, la puzza tappa lo spazio chiuso soffocando le mie ambizioni di portafoglio pieno. Ho raggiunto il punto più basso della mia vita, la sorte mi avversa con lucida coscienza. Trascorro la notte pensando all’avvenire, ma non trovo spiragli che mi lascino sognare, non c’è nemmeno Eva a infondermi coraggio.
È l’alba, quando penso sia giunta la mia ora, entra nel vicolo un energumeno panzuto, lo attraversa fino in fondo guardandosi intorno circospetto, poi veloce libera il suo piscio proprio accanto a me. Qualche schizzo mi raggiunge, maledetto bruto non sono questi i liquidi che cerco! Si gira e mi scorge tra la melma, un bagliore illumina i suoi occhi spiritati. Le enormi mani callose mi sollevano con la grazia di un orco che setaccia una palude. Rimossa la fanghiglia, s’inebria alla vista delle robuste squame verdi. Gli piaccio e mi porta via con sé da quel tetro antro maleodorante. Alla luce del sole, cerco di inquadrare meglio il soggetto che mi ha appena fatto suo. Riposto in una tasca molto ampia di un jeans strappato dal tempo, spero di poter cadere fuori quanto prima. È largo il pantalone involontariamente a vita bassa da cui restano visibili spicchi di chiappe pelose, è extra large la pancia che trabocca dalla maglietta slabbrata lasciando scoperto l’ombelico. Un vedo non vedo adiposo, l’apoteosi della non curanza mista al cattivo gusto, una mise ricercata nei peggiori mercatini di vestiti usati. Ben presto capisco che sono gli abiti in borghese, quando esce dal bagno della sua officina è in divisa da meccanico. Ora ha un aspetto decoroso, la tuta di cotone blu ricopre finalmente quegli spazi osceni che prima molleggiavano con troppa libertà. Basta poco e le mie squame sono sudice, tutte macchiate di grasso e olio. Di tanto in tanto sono costretto a strusciare contro giraviti, pinze e rondelle lasciati in tasca durante le diverse operazioni. Sono forte e non temo di essere intaccato, ma a lungo andare potrei soffrire della sgradita vicinanza di quegli arnesi acuminati. Resto tranquillo solo quando li vedo appesi alla rastrelliera da parete che luccica oltre il grande ponte sollevatore. I clienti non mancano, il mio orco è una vera celebrità nel suo ambiente. Ha la battuta facile e sa farsi voler bene. Abbindola con scaltrezza e ripara con destrezza. A volte mi pulisce passando sulle squame un panno di daino imbevuto in un apposito prodotto, per poi ammirarmi con orgoglio tra le dita gigantesche.
Con Dany, il morbido strofinaccio dal fare delicato, sono entrato subito in sintonia. È il mio confidente, a lui rivelo le ansie e le angosce più nascoste. Ascolta con pazienza ed elargisce consigli mai scontati. Purtroppo invecchia a vista d’occhio, in breve tempo ha perso il suo colore e sfibrato arranca tra le superfici. I solventi e le soluzioni chimiche lo consumano senza tregua, ormai è l’ombra di se stesso. «La fine è vicina, oggi è il mio ultimo giorno, me lo sento.» mi ha appena detto con voce flebile e rassegnata. Sono rimasto di stucco senza proferire una parola, solo una carezza per alleviare il suo dolore. Ho passato la notte in bianco, meditando su come possa essere breve e mortificante la vita di alcuni sfortunati. Spero almeno di essere riuscito a offrirgli momenti di leale e piacevole amicizia. Che tristezza vederlo riverso nel cestino, il suo presentimento si è avverato: un’esistenza dignitosa giace ignorata tra i rifiuti.
Per me, invece, le cose cominciano a girare per il verso giusto. Nell’officina le carte di credito non sono ben accette e di solito si paga in contanti. Qui il nero è il colore che predomina. La cura ricostituente dell’orco ha effetti miracolosi, sono aumentato di peso, ben imbottito di banconote. I giorni passano e, anche se imbrattato, mi gonfio a dismisura ricolmo di biglietti di ogni taglio. Sono al settimo cielo, gongolo soddisfatto per l’inattesa situazione, ormai disperavo di raggiungere l’agognata obesità. Unto fin dentro le cuciture, ma soddisfatto e raggiante, grido al mondo quel che ho sempre pensato: «Grasso è bello!»
Racconto terzo classificato al premio letterario “Lorenzo Alessandri” dal tema “Il surrealismo dentro e fuori di noi”.