I panni erano nuovi, puliti e ben tesi. Un verde immacolato assorbiva la luce opaca delle lampade al neon e la diffondeva con nuova intensità su tutto il tavolo. Mario allungò il braccio e pose il palmo della mano sul tessuto di lana e acrilico, poi allargò leggermente le dita per godere appieno di
quell’attrito familiare. Cinque input che il cervello riconobbe subito traducendoli in una sensazione nota e stimolante.
Erano almeno due anni che qualcuno non sostituiva i panni ai tre biliardi dell’unico luogo di ritrovo e svago del paese. Mario camminava parallelo alla sponda lunga senza staccare la mano dal tavolo verde, gli occhi chiusi e il passo lento.
«Che meraviglia!» esclamò verso Alfonso seduto al bancone di fronte. «Dovresti cambiare anche i segnapunti. Mettici quelli elettronici, questa specie di pallottolieri sono qui da quando facevo buca alle superiori.»
Alfonso si lisciò la barbetta bianca e sbiascicò contrariato: «Fammi avere un finanziamento.
Trovami qualche misura appropriata, che ti faccio vedere come trasformo la sala!»
«Caro Alfonso, le misure attuali sono rivolte a chi ha meno di trentasei anni o alle persone di genere femminile. Devi solo mettere mano al portafoglio.»
«E certo, quelli come me per lo Stato possono anche morire di fame.»
«L’intento è giusto: bisogna aiutare le fasce deboli» rispose Mario aprendo gli occhi al contatto con
la sponda corta.
Alfonso balzò fuori dal suo presidio e gli abbaiò: «Fasce deboli un corno, le donne ormai hanno preso il sopravvento. Conosci qualche casa dove sia l’uomo a comandare?»
Mario annuì e disse: «Quella di mio fratello.»
Alfonso scoppiò a ridere, quasi non riusciva a fermarsi. «Ah, ah, lì Debora è proprio una regina incontrastata. Vedi che ho ragione? Ormai, il nostro non è più il sesso forte.»
Mario si abbassò sotto la pancia del biliardo alla ricerca del termostato. «La differenza tra maschi e femmine non c’entra niente. Mia cognata ha una forte personalità e… tante altre cose.» Riemerse sul biliardo percependo una sensazione di calore sul volto molto più forte di quanto lo sforzo
avrebbe dovuto provocare. Fece il giro attorno al tavolo verde e si chinò dall’altro lato. Trovato il dispositivo lo accese, premendo con veemenza un pulsante. Restò accucciato sulle gambe, lontano dalla vista dell’amico. «Dopo oltre vent’anni ci siamo riappacificati. L’ho rivista al funerale di papà
e siamo arrivati a una pace forzata. Purtroppo, mio padre non ha lasciato un testamento e sono stato costretto ad assecondare quasi tutte le sue scelte.»
«E Dario?»
«Non ha aperto bocca.» Gli tornarono in mente le immagini della stipula notarile: Dario che apponeva la sua firma come unico gesto di partecipazione al rogito, lo sguardo fiero e altero della cognata che aveva incassato dieci ettari di oliveto con annessa casa colonica vista mare. Debora aveva avuto anche la sfacciataggine di sussurrargli all’orecchio che, se solo avesse voluto, lui si sarebbe preso anche il resto.
Imbarazzato, Mario tornò a parlare di lavoro. «Le mie consulenze si sono ridotte alla tentata vendita di sogni impossibili di clienti improbabili.» Era la frase a effetto che ripeteva spesso agli amici, ma
che secondo lui ben descriveva la realtà. Rammaricato, aggiunse: «Ci si inventa di tutto pur di raccattare finanziamenti a fondo perduto.»
Alfonso ribatté prontamente: «Basterebbe che nu guaglione qualsiasi volesse aprire una sala biliardo a trenta metri da qui e io sarei fottuto per sempre!»
«In effetti» fece Mario rigido, spingendo i polsi sul biliardo «c’è una persona che ha in mente
qualcosa di simile.»
Alfonso gli arrivò a un palmo dal naso. «Cioè? Spiegati meglio.»
«Un grande centro scommesse, con slot machine e tavoli da biliardo.»
«Devi impedirglielo, fai di tutto per evitarlo. Mi distruggerebbe.»
«Te lo prometto, Alfonso, farò di tutto» disse Mario mentre portava la mano sul cuore.
L’amico si sedette sulla sponda con le gambe ciondoloni, curvo e lo sguardo nel vuoto. «E chi ha avuto questa bell’idea?»
Mario respirò profondamente, poi tuonò: «Non ci crederai, ma è proprio mia cognata. Debora Di Palma. Abbiamo appuntamento qui ed è già in ritardo.»
Debora arrivò di gran lena, indossava una gonna in pelle nera lunga fino al ginocchio e una camicia bianca attillata che valorizzava le sue forme. Dopo un’occhiata fugace all’orologio d’oro con la cassa a goccia, pronunciò la prima improbabile esternazione: «Ho trovato un po’ di traffico, ma una
manciata di minuti sono concessi a una signora ormai abituata alla città, e che non conosceva questo posto. Non è stato facile trovarlo.»
Mario si morse la lingua. Alle tre del pomeriggio, sulla statale che portava all’unica sala biliardo della zona, al massimo si poteva incrociare un’Ape Car. Persino le vecchiette vestite a lutto, sempre sedute davanti alle loro case senza intonaco, le avrebbero fornito più indicazioni di Google Maps, se
solo avesse voluto informarsi.
Non fece una piega, però. «Ben arrivata, non ti preoccupare dei venti minuti di attesa. Ne ho approfittato per fare due chiacchiere con il mio amico Alfonso» e lo indicò con un cenno della testa.
«Quando ho sentito che hai ricominciato a giocare a biliardo, ho pensato subito a una partita come ai vecchi tempi a Roma…» Debora si guardò attorno schifata «Solo che qui l’ambiente lascia molto
a desiderare.»
Alfonso incassò senza proferire parola e, azionato il timer, consegnò le palle.
Debora si avvicinò alla stecchiera per scegliere una stecca. «Me ne dia una più professionale, che queste somigliano più a mazze di scopa!»
Alfonso tolse dal fodero la sua e gliela porse garbatamente.
Mentre provavano il biliardo, Mario fece notare che non si sarebbero affrontati ad armi pari. Lei ribatté secca di meritare un piccolo vantaggio, una concessione cavalleresca per chi non giocava da anni. Dopo due filotti in successione fu chiaro che Debora avesse continuato a praticare regolarmente il suo hobby preferito anche nella città capitolina. Valutava i tiri in silenzio e poi colpiva le biglie con decisione, non forzava mai la giocata: voleva vincere. Una vera professionista in incognito. Ogni volta che segnava i suoi punti sorrideva beffarda. Mario si trovò, suo malgrado, in una competizione senza esclusione di colpi: manico di scopa contro stecca acuminata.
In breve tempo, attorno all’unico biliardo impegnato della sala si radunò un folto gruppo di uomini, incuriositi dalla donna giocatrice. Se ne sarebbe parlato per giorni, Mario ne era certo.
Compresa la difficoltà dell’incontro, inforcò gli occhiali e, tirandosi su le maniche della camicia, cominciò a giocare con più decisione e agonismo. La partita era in equilibrio: avanti lei, ma di poco.
Dando uno sguardo al pallottoliere, però, qualcosa non tornava. Pose attenzione a ogni mossa della cognata che, dopo un bel giro da quattro punti, con relativa impallatura, andò a segnarne sette sul vecchio pallottoliere.
Mario avrebbe voluto sputtanarla davanti agli astanti, gridare la sua infamia, o colpirla con la stecca su quelle mani truffaldine; decise invece di non fare scenate e dopo un pallino da tre incaricò Gino, il più giovane degli spettatori, di segnare il punteggio, e di rimanere al segnapunti fino alla fine della partita, affinché loro restassero concentrati solo sul gioco. Gino sorrise raggiante. Più vicino al biliardo, godeva della visuale ideale sulla silhouette flessuosa di Debora. Capitava, infatti, che la cognata si allungasse sul tavolo verde scoprendo le gambe fino all’interno coscia o che il suo seno prorompesse dalla scollatura profonda, a beneficio dello sguardo di Gino. Quelle attenzioni morbose infastidirono Mario. Una vita prima, infatti, quel corpo sinuoso aveva attratto anche lui, e il fervido ricordo degli anni universitari fu trafitto da schegge di gelosia.
La partita stava giungendo al termine, a Debora mancavano pochi punti. Un tiraccio di Mario, teso per l’imprevisto fine gara, le diede l’opportunità di chiudere l’incontro facilmente. Le sarebbe bastato far carambolare la propria palla contro quella di Mario e poi sul pallino vicino. Giusto i quattro punti che le occorrevano per arrivare a cento. Il tiro appariva semplice, ma la sua biglia era molto lontana e la posizione scomoda. Studiò il colpo da ogni angolazione, e nel passare accanto a Mario gli sfiorò le spalle. Al contatto con la camicia, la mano indugiò infondendogli un tremito dolce per tutta la schiena.
«Sembra un gioco da ragazzi, ma le insidie sono dietro l’angolo» disse Debora mentre continuava ad accarezzarlo. «Se fossi alta come te, potresti già andare a pagare.»
La sala si era riempita all’inverosimile, la notizia della formidabile biliardista si era diffusa velocemente. Facce attonite e sguardi perplessi circondavano il tavolo verde. Un brusio di fondo pervase l’ambiente. Mario restò impressionato da tanto fermento, cercava di carpire i commenti
degli spettatori. Quando comprese che erano perlopiù rivolti all’aspetto estetico di Debora, anziché alle sue giocate, desistette.
«Silenzio, per favore!» sbraitò lei.
«E che siamo, in una chiesa?» ribatté Mimmo, noto a tutti per la sua acida impertinenza. Debora lo degnò solo di uno sguardo sprezzante e prese a concludere la partita. Si stese per tutta la sua lunghezza sul biliardo con un solo piede poggiato per terra, quasi stesse provando a cavalcarlo.
Nell’atto di piegarsi, anche Gino si flesse di fronte a lei concedendosi l’ultima, approfondita sbirciatina su quel seno procace che, morbido, si adagiava sul panno verde. Lei lo guardò, poi mise a fuoco la sua biglia e la colpì. Ne risultò un tiro loffio, lento, che a stento fece impattare la palla
contro quella di Mario.
Un mormorio accompagnò la pessima giocata di Debora che, incredula, rimase ferma sul biliardo.
Rigida come una statua di marmo guardò per alcuni secondi la posizione in cui aveva lasciato le biglie. Poi, girò gli occhi al cielo con l’espressione di un bimbo che aveva appena visto volare via il suo palloncino.
Mario era incredulo, la cognata aveva sprecato il match point e gli lasciava un tiro facile per ribaltare l’esito dell’incontro. Mentre si apprestava a colpire, sentì un fastidioso stridio. Si voltò verso Debora e la vide sfregare con insistita violenza il gessetto contro il tacchetto della stecca. Per
terra, schegge e polvere blu. Imperterrito adagiò la sua mazza di scopa nell’incavo tra pollice e indice e mimò il gesto del tiro. La fece scorrere dolce parallela al biliardo ma, un attimo prima che toccasse la biglia, nella sala si levò un urlo.
«Non è giusto, non puoi vincere così!» Lo strillo isterico di Debora impietrì i presenti.
Un colpo sporco, di potenza esagerata, fece schizzare le palle su e giù per il biliardo. Quella di Debora si catapultò, come se fosse stata mossa da un telecomando nascosto, diritta sul castello di birilli, facendo cadere solo quello rosso. Il centrale da dieci punti. Partita vinta da Mario e apriti cielo.
«Non si può giocare in queste condizioni, sono attorniata da una banda di viscidi bavosi che sembra non abbiano mai visto una donna!» si lamentò, prendendosela poi anche con Gino «Specialmente quel rattuso lì che segna i punti!»
Buona parte della sala, a quel punto, si avviò all’uscita tra commenti sconci e sguardi minacciosi.
Gino diventò tutto rosso, quasi si sentì il crepitio dei brufoli che prendevano fuoco sulla sua faccia.
«Bisogna saper perdere» intervenne Mimmo non interrogato.
«Ma chi cazzo la conosce, come si permette?» ragliò Debora brandendo minacciosa la stecca.
Mario intervenne repentino: «Stiamo tutti calmi, non è il caso di infervorarsi tanto per una partita di biliardo.»
«Non ci si rivolge così a una signora, specie in queste situazioni» aggiunse ancora Debora.
Mimmo la sfanculò col dito medio e andò via portandosi dietro il resto della claque.
«Dalle la rivincita» propose Alfonso cercando di stemperare la tensione.
«Per me non ci sono problemi» masticò amaro Mario.
Gli occhi di Debora brillarono di gioia. «È giusto darmi un’altra opportunità. Ma ora la riunione si fa attorno a questo tavolo, anziché nel tuo studio.» Acchitò le palle, poi si rivolse ad Alfonso: «Certo che se ci lasciasse soli, potremmo discutere meglio.»
«Avevo proprio una commissione da fare, ne approfitto. Tanto, finché ci siete voi, qua dentro non entrerà più nessuno» rispose lui scuotendo la testa. Mentre andava via sussurrò a Mario: «Falle cambiare idea, a questa stronza.»
Dopo qualche tiro interlocutorio, Mario esordì: «Hai letto i documenti che ti ho inviato? È il momento giusto per investire in questo territorio. Se costituisci una società possiamo beneficiare di finanziamenti a fondo perduto…»
«Sempre che ne sia io a capo, la misura per favorire la parità di genere parla chiaro» intervenne lei senza staccare gli occhi dal biliardo.
Dopo oltre un’ora dall’inizio della partita avevano compreso di equivalersi. La rivincita, però, stava prendendo una chiara piega a favore di Debora. Mario era costretto a giocare sulla difensiva, ma ciò non lo turbava. La cognata era concentratissima, e quando la sua palla rimase nascosta dietro i birilli optò per tirare un difficile tre sponde. Più volte fece il giro del biliardo, calcolò l’angolazione, memorizzò le diagonali. Colpì decisa la sua biglia che impattò sulla prima sponda lunga, poi sulla sponda corta e sull’altra lunga, toccando la palla di Mario con la forza giusta per fare quattro punti.
«Brava, davvero un gran colpo» chiosò lui. A ogni bel tiro, adesso, si sperticava di complimenti:
«Splendido filotto.», «Grande palla.», «Sei un mostro!»
Il volto di Debora si rasserenò e lui riconobbe quella giovialità contagiosa che aveva da ragazza, quando il controllo totale degli eventi e il predominio sulla situazione la rendevano addirittura radiosa. Dopo uno struscio ben giocato, Mario andò a segnarsi sei punti, dando le spalle al biliardo.
Allorché si voltò, capì che mentre lui aveva lentamente spostato un cubetto numerato alla volta sul pallottoliere, la cognata era stata lesta a muovere la propria palla di qualche centimetro in avanti. La nuova posizione della biglia le consentì un tiro più favorevole. Il tiro che le permise di aggiudicarsi
la rivincita. Mario non le rinfacciò la mossa fraudolenta, anzi, lodò la sua giocata finale.
Accolto con piacere l’elogio, Debora sogghignò. «Sai che mia madre quasi se ne accorse?»
«Non capisco.»
«Mi chiese: “Ma il tuo fidanzato non si chiamava Mario?”.»
«E tu?» domandò lui curiosissimo.
«“Dario, mamma”» le risposi enfatizzando la d. «“Al prossimo compleanno ti regalo un apparecchio acustico!”»
«Ah, ah. Non avevo mai pensato che a differenziarmi da mio fratello fosse una semplice consonante» fece lui poggiandole la mano sulla spalla.
Lei non la tolse e inclinò la testa per accarezzarla. «Mica solo questo…» Gli fece l’occhiolino.
«Smettila! Ho ancora la coscienza sporca per non avergli mai rivelato di noi.» La allontanò e sentì salire, di nuovo, l’amarezza per l’ultimatum che Debora gli aveva posto: dire a tutti del loro amore oppure interrompere la relazione. Lui non era affatto convinto dei propositi della fidanzata e aveva
deciso di lasciar perdere. Debora non si era persa d’animo e un paio di mesi dopo era caduta tra le braccia del fratello. Per lei, contava stare col “figlio degli Agnini”.
«Ora dovremmo fare “la bella”, ma il tempo stringe, ho un appuntamento con un altro cliente» tagliò corto Mario.
«E noi quando ci rivediamo?»
«Domattina, nel mio ufficio. Ma prima ti invito a pensare anche ad altre soluzioni. Che so: un’impresa agricola con l’oliveto di famiglia.»
«E perché mai?»
«Sicuramente è più adatta all’ambiente rurale della zona.»
«Ci penso» disse lei scettica alzando un sopracciglio.
Dal balcone che affacciava sulla piazza principale entrava un sole sfavillante. La collana che impreziosiva il décolleté di Debora brillò regalando lampi d’argento per tutto lo studio. Mario sedeva serio dietro la scrivania e notò che sua cognata indossava i vestiti del giorno prima. Anche lui non si era cambiato il jeans e la camicia celeste, come fosse il sintomo di una ricostituita familiarità che non prevedeva accorgimenti di facciata.
«Senti, ci ho pensato e… resto della mia opinione. Non possiamo stravolgere un progetto già delineato.»
«In realtà ne abbiamo parlato sommariamente, era un’idea tra un ventaglio di possibilità, niente di
concreto. Ti assicuro che sono sempre più convinto che sterzare verso un’azienda agroalimentare sia la cosa migliore.»
«Ci manca solo che mi metta a fare la contadina!» rispose Debora, e scacciò via l’aria con il palmo della mano.
Mario le prospettò la sostenibilità ambientale del nuovo progetto che, di certo, sarebbe stato accolto con maggiore interesse. La possibilità di occupare numerose persone favorendo lo sviluppo del territorio. La non trascurabile eventualità di avere a che fare con gente semplice ma rispettosa, e non con esaltati giocatori d’azzardo. Sarebbe bastata anche una sua minore presenza in zona, visto il carattere prettamente stagionale dell’attività.
Debora sbuffò: «Una raffica del genere metterebbe alle corde chiunque. Ma ti dimentichi di una cosa…» si interruppe per giocare con la sua collana «la notevole differenza di introiti.»
Mario abbozzò un sorriso. «Tu non hai idea degli incentivi che ci sono per l’agricoltura e, ti assicuro, non solo una tantum. Bonifici annuali a ogni raccolta, per esempio.» Sollevò la foto del padre dalla scrivania e la mostrò alla cognata. «Anche lui ne sarebbe contento, con un oliveto rivalutato e produttivo faresti un bel regalo alla sua memoria.»
«Ne parlo con mio marito e ti faccio sapere» disse lei, mentre girava sulla sedia di pelle come su una giostra.
Mario rise. «Ti prego, Debora, non scherzare, mio fratello non ha mai contato nulla negli affari della vostra famiglia.»
Lei si allungò sulla scrivania e gli prese la mano. «Per me, conti solo tu.» Poi lo guardò diritto negli
occhi: «Potremmo ricominciare, se vuoi.»
I soliti sogni impossibili di clienti improbabili, pensò lui.
Poggiò l’altra mano sulla sua. «Dottoressa Di Palma, parliamo di lavoro.»
Lei, come se nulla fosse accaduto, si ritrasse sulla sedia e gli regalò un sorriso di circostanza.
«Il punto è che, dopo quanto accaduto ieri nella sala di Alfonso, hai fatto terra bruciata attorno alla maggior parte dei tuoi potenziali clienti.»
«Ma che mi frega di quattro bifolchi, ho mire più grandi. Il mio sarà un centro di riferimento per un territorio più vasto di quanto credi» ribatté lei spazientita.
«Tu non li conosci. E non li rispetti. Quelli sono capaci di convincere amici e parenti a boicottarti.»
«Rimarranno abbagliati dalla novità. L’atmosfera ludica ma professionale, i suoni delle slot, i colori e la possibilità di guadagni facili faranno dimenticare ogni incomprensione.» Debora toccò la punta di un tagliacarte d’argento.
«Così distruggi un ambiente genuino, fatto di semplicità e sacrificio…»
«Basta!» La cognata batté un pugno sulla scrivania. «La morale falla a qualcun altro, non posso darla vinta a quei cafoni!»
«Nessuno ti chiede questo, ma un’azienda olearia seria ed efficiente farebbe il tuo e il loro caso. Ne sono certo.»
Debora si alzò di scatto e fece per andarsene. Sul volto, una smorfia di disgusto misto a commiserazione. Mario fu lesto a raggiungerla e bloccarla per un polso. Si meravigliò della mancanza di reazione, allora con la mano salì fin sulla spalla. Poi allungò l’altra e la cinse in un abbraccio sofferto. Inumidì la bocca, sfiorò le sue labbra, il suo naso e la baciò sulla fronte. «Fallo per me, ascoltami.»
«E a me chi ci pensa? Che ne trarrei, io?»
«Ma non ti piacerebbe vedere il tuo nome su una bottiglia di olio autentico e sano? Un prodotto ben riconoscibile in tutte le migliori catene di supermercati?»
Debora alzò le sopracciglia e suggerì: «Una bottiglia verde di design con un’etichetta d’oro a contrasto, magari.»
«A quella ci penso io. Sarà il mio regalo» fece Mario schioccando le dita.
«Ok, vada per l’azienda agricola.»
Quel netto rifiuto seguito da un assenso sofferto non rimase, comunque, senza conseguenze. Un moto di rivalsa spinse Debora a spifferare la vecchia tresca al marito, che non poté fare a meno di chiedere un incontro chiarificatore. Prima di trovarsi al cospetto del fratello, Mario maledì la sua
scarsa lungimiranza. Salì in ascensore, premette un tasto della pulsantiera e si guardò allo specchio:
i capelli trasandati e la barba incolta stonavano al cospetto dell’elegante completo nocciola di sartoria. La porta si schiuse ed entrò una ragazza che trascinava dietro di sé un trolley fuxia.
«A che piano va?» chiese lei discreta.
«Al terzo.»
«Ma siamo già al sesto, l’ultimo.»
«Allora scendiamo insieme» disse Mario sforzandosi di non apparire confuso. Davanti al suo ufficio bussò. Non gli aprì nessuno: era lui, del resto, l’unico occupante dello studio. Entrato con le sue chiavi, pensò che fosse ora di cambiare registro. Spalancò risoluto la finestra che dava sul balcone e
si sedette diritto sulla poltrona piantando gli avambracci sulla scrivania – era pur sempre il fratello maggiore. Il tagliacarte d’argento faceva bella mostra davanti a sé. Fissò a lungo quell’oggettino acuminato, e quando suonò il campanello lo ripose lesto in fondo a un cassetto. Era in anticipo, un
brutto segnale.
«Vieni, Dario, entra. Sono appena arrivato anch’io.»
Il fratello non replicò. Sguardo torvo e incedere deciso. Si tolse il cappello nero con la visiera e lo gettò sulla scrivania. Si lisciò la pelata con colpi netti e rapidi, infine sbottò: «Bastardo, come hai potuto?»
Mario aveva immaginato che il fratello, per quanto remissivo, non gli avrebbe certo fatto sconti, ma non aveva previsto un comportamento così ostile. Farfugliò qualcosa di incomprensibile, ma quegli
occhi truci che lo fissavano con risentimento bloccavano ogni suo slancio. Abbassò la testa per evitarli.
Dopo una lunga pausa, Dario infierì caustico: «Non te lo perdonerò mai.»
Mario non lo aveva mai visto così, né lo pensava capace di manifestare tanta acredine. «Hai ragione, avrei dovuto dirtelo» cominciò a giustificarsi «ma credimi, è una vita che convivo con il senso di colpa.»
Dario sogghignò, poi rise e infine si sganasciò.
«Che idiota! Stavi scherzando» fece Mario rinfrancato.
Si abbracciarono tenendosi stretti guancia a guancia come da bambini, quando la spensieratezza li univa con spontanea complicità. Mario si strofinò gli occhi umidi con il polsino della camicia, mentre dall’altro lato suo fratello continuava a ridere di gusto. Poi, accortosi di essere osservato,
asciugò una lacrima di gioia sulla guancia.
Dario ruppe l’imbarazzo: «Che ne diresti di una bella partita da Alfredo?»
«Ottima idea, ha sostituito anche il vecchio segnapunti.»
Dopo rinvii, lungaggini burocratiche e accertamenti capillari, la pratica fu accettata. Un paese in festa brindò alla rinascita di un territorio depresso. In occasione della prima campagna olearia dell’azienda capitanata da Debora, sopra una bottiglietta verde come i panni di un biliardo, e un’etichetta d’oro come i sogni migliori, appariva la scritta “Olio Di Palma”.
Contromisure è il racconto finalista al Premio Colsalvatico svoltosi a Tolentino il 25 febbraio 2023. Tema del concorso: “L’umorismo, un modo di guardare la realtà”.